21 gen 2025
Non facciamo raccontare agli hashtag ciò che non possono dire.
Un commento di Katja Besseghini, presidente di Tetrabondi Onlus, sulla ricerca dal titolo «Superguerrieri. L’influ-attivismo dei genitori caregiver tra rappresentazioni della disabilità e individualismo politico», apparsa sul numero 24/2024 di Mediascapes journal
Sul numero 24/2024 di Mediascapes journal è apparso un articolo dal titolo «Superguerrieri. L’influ-attivismo dei genitori caregiver tra rappresentazioni della disabilità e individualismo politico», a firma di di Alessandra Baffi, psicologa e psicoterapeuta e Marco Binotto, docente di Sociologia dei processi culturali alla Sapienza di Roma, che riassume una ricerca sociologica sul comportamento social di 22 profili gestiti da altrettanti caregiver.
L’analisi proposta appare piuttosto carente sotto il profilo metodologico poiché accomuna gli account di singole persone che si esprimono a titolo individuale con quelli di persone che sono portavoce o comunicano per conto di enti o associazioni del terzo settore.
Il risultato è un grande minestrone che accomuna comportamenti, contesti, obiettivi e contenuti molto diversi. Oltretutto la ricerca è stata condotta analizzando solo i contenuti espressi su un singolo social, Instagram, senza tenere presente che se per un certo numero di profili si tratta dell’unico account utilizzato per molti altri è solo uno dei tanti canali di comunicazione, il che riduce drasticamente lo spettro dell’analisi condotta, appiattendo i contenuti proposti dai quei profili che utilizzano più social o fanno comunicazione (anche) su altri i media: quotidiani, riviste, radio e Tv.
Gli autori sembrano in primo luogo concentrati nella dimostrazione di una tesi di fondo: ovvero che queste nuove forme di social-attivismo producano fondamentalmente «individualismo politico e vocazione autoimprenditoriale», sarebbero riconducibili ad uno schema d’azione politica tipicamente neoliberista, non produrrebbero alcun avanzamento politico, culturale e sociale sui temi della disabilità.
L’articolo non è poi privo di valutazioni etiche e, persino, forse inconsapevolmente, di legalità dell’azione degli enti del terzo settore direttamente interessati.
Sostenere, come è stato scritto, che «non vi è in nessuno dei progetti presi in esame, una ricerca di cooperazione e manca totalmente la volontà di porsi come intermediari con le istituzioni. Le istanze portate, seppur importanti, confermano visioni personalistiche e centrate sulla propria ridotta esperienza del quotidiano», è un’affermazione grave poiché non risponde a verità e testimonia - nella migliore delle ipotesi - l’approssimazione dell’osservazione condotta.
Il paradosso della ricerca sta nella distanza tra la limitatezza della focale scelta e l’ampiezza delle valutazioni espresse: dall’osservazione dei profili Instagram, per altro ad una data che si ferma al 2022, gli autori non hanno - evidentemente - potuto acquisire alcuna informazione sulla realtà di cui gli acount erano e sono espressione.
Nell’articolo si attribuiscono dichiarate finalità di attivismo a profili genuinamente personali che costituiscono apertamente fonte di reddito per i caregiver e finalità commerciali a profili a sostegno di attività sociali e politiche. Le due casistiche vengono quindi accomunate e bollate di ingannevolezza.
Tetrabondi (alla stregua di altri enti del terzo settore riconoscibili nell’articolo) è nata tessendo legami con e nei territori, con enti e associazioni del mondo della disabilità e non solo, relazioni strutturate con le istituzioni.
L’appartenenza al Disability Pride Network, l’alleanza e le sinergie continue con altre associazioni operanti sul territorio, la molteplicità di progetti realizzati, le conferenze e rapporti con i dipartimenti universitari che si occupano di disabilità e inclusione, l’opera di denuncia pubblica delle carenze del sistema assistenziale e di istruzione, lo sportello informativo aperto alle famiglie, sono colpevolmente ignorati.
Siamo consapevoli della delicatezza delle questioni connesse all’esposizione mediatica di persone minori che ha costituito e costituisce terreno di riflessione anche interna alla nostra organizzazione, tuttavia, suscita rammarico che la tesi dei ricercatori, forse l’unica meritevole di approfondimento in quanto strettamente attinente l’oggetto della ricerca, proposta a pagina 140, sia rimasta non argomentata: «tale utilizzo della personalità e dell’intimità di queste bambine e bambini, sembra già in contrasto con ciò che in apparenza queste pagine si prefiggono di raggiungere: una nuova visione della disabilità, il diritto all’autoaffermazione, una piena inclusione nella società e un linguaggio nuovo e rivoluzionato riguardo questi temi».
Uno statement di tale portata avrebbe come minimo meritato un paio di pagine di spiegazioni tecniche, come ci si attenderebbe legittimamente da studiosi della comunicazione, a cominciare dall’uso dell’espressione particolarmente insidiosa e allusiva «ciò che in apparenza queste pagine si prefiggono di raggiungere». Affermazione che lascia intendere l’esistenza di una doppiezza nella narrazione, in cui la realtà sarebbe molto diversa da come viene rappresentata.
Un’analisi che aiutasse il lettore a comprendere le ragioni di tale affermato contrasto tra la presenza social e la difesa del diritto all’inclusione sociale sarebbe stata – riteniamo – doverosa e per quanto ci riguarda apprezzata, trattandosi di una finalità quotidianamente e realmente perseguita con intenso investimento di energie fisiche, economiche e intellettuali dalle persone che operano nella nostra organizzazione.
Ciò che più ci sconcerta in uno scritto pubblico di dichiarata natura accademica sono le conclusioni – come minimo azzardate – che i ricercatori traggono dall’osservazione dei soli profili social: «L’obiettivo finale di questi genitori caregiver sembra quasi essere, più che informare sul tema disabilità infantile e creare una rete che possa dar vita ad azioni politiche, la costruzione di un personaggio, un percorso molto simile a quello compiuto da altri/e influencer, ciò che li/e distingue è solamente l’argomento da cui partire.
Grazie all’attività svolta sui social, principalmente formata da contenuti con foto e video dei figli; infatti, questi account riescono ad essere un’occasione di valorizzazione economica, sia diretta − attraverso le numerose attività commerciali −, che indiretta – con l’allargamento del pubblico di follower aumenta anche il valore commerciale del profilo».
Ebbene, consideriamo tali affermazioni gravemente ingiuste, sbagliate nei fatti e immotivatamente offensive per la nostra organizzazione (e per altre, che ben conosciamo).
Tetrabondi ONLUS è un ente no profit che non solo non ha intrattenuto – come del resto la fondatrice e portavoce Valentina Perniciaro, nell’articolo riferita come “mamma di Sirio” (sic!) – collaborazioni commerciali per la promozione di alcun genere di prodotto o servizio, ma dalla sua costituzione ha svolto e svolge unicamente attività di interesse generale interamente incentrate sulla socialità e le pratiche inclusive nella dimensione pubblica, attraverso l’evento gratuito «Ognuno a modo suo – sport senza barriere», la messa a disposizione alle famiglie di joelette per escursioni, il programma «Ti porto al parco» promosso dal Parco Archeologico del Colosseo e condotto da Tetrabondi in collaborazione con SOD Italia, APS e RADICI Coop Sociale, e, non ultimo, lo studio del Parco Inclusivo Universale, condotto per noi dal Dipartimento di Architettura di Roma Tre, attualmente esposto nell’ambito della mostra Hyperdesign al Museo di Arte Moderna di Gallarate e oggetto di una pubblicazione scientifica di prossima uscita, questo accanto a numerosi altri progetti in scuole, parchi, università in strettissimo e rigoroso rispetto degli scopi istituzionali e soprattutto in assenza di alcun perseguimento di interessi economici individuali.
Gli autori non esitano a bollare le realtà che stanno dietro gli account social alla stregua di «Una sorta di impegno pubblico neoliberale, in cui l’“avversità” non viene superata attraverso un cambiamento del contesto sociale ma grazie alla motivazione, alla performance e al merito individuale. Lo stile comunicativo diventa allora didascalico: la condivisione non è mai di esperienze con gli altri, ma solo di contenuti per gli altri. Preferisce suscitare coinvolgimento, non mobilitazione. Commozione, non cooperazione».
Di nuovo riteniamo che tali affermazioni vadano ben oltre la capacità di analisi e le competenze di uno studioso della comunicazione digitale e debordino in campi evidentemente eccedenti non solo l’oggetto dell’analisi (i comportamenti social di una ventina di utenti) ma anche gli strumenti di valutazione in possesso degli stessi estensori dell’articolo, che – sulla base di una posizione alquanto aprioristica – non esitano ad esporsi – “forti” dell’analisi di hashtag e parole chiave – bollando come ingannevole la comunicazione e non genuine le finalità perseguite dagli enti del terzo settore coinvolti.
La scelta di pubblicare valutazioni del genere avrebbe dovuto essere meglio ponderata per il danno che arreca alla reputazione dei soggetti coinvolti, posto che (gli estensori dell’articolo forse lo ignorano?) accusare un ente del terzo settore di perseguimento di fini economici personalistici può avere pesanti implicazioni sia per l’ente stesso che per gli autori dell’accusa.
Ci saremmo attesi maggiore prudenza e rispetto, perché gli enti no profit sono spesso fragili, vivono quanto e più di altri della loro reputazione e credibilità per poter svolgere quella funzione di soggetti politici e attori di un cambiamento culturale che nell’articolo si pretende, contro ogni evidenza, di negare.
Questo è ciò che ci sentiamo in diritto (e in dovere, verso chi ci sostiene, anche economicamente) di fare presente ai vostri lettori.