27 apr 2023
Articolo di Valentina Perniciaro per la rivista bimestrale per genitori Uppa magazine, scritta da pediatri, pedagogisti, psicologi e specialisti he si occupano di bambini. Nel numero di aprile 2023, un focus sulla disabilità e la necessità di costruire un mondo a misura di tutti i bambini e la bambine
Decostruire un immaginario collettivo secolare per sovvertire un paradigma e liberare corpi e menti da stereotipi e stigma è un salto rivoluzionario urgente e necessario nella nostra società, ed è quello che proveremo a fare anche in queste righe, insieme.
Per mettere le fondamenta di un mondo incapace ad escludere, che sia veramente voce ed espressione di ogni soggettività a prescindere dalle sue condizioni fisiche, mentali e sociali, c’è la necessità di mutare lo sguardo e l’approccio di ognuno di noi con la vulnerabilità, con le persone con disabilità e quindi i bambini e le bambine con disabilità, i loro genitori, i loro fratelli e sorelle.
Costruire una società che sia universalmente inclusiva non può che essere un percorso collettivo, che passa per la distruzione di stereotipi e di etichette che abitano ognuno di noi nel momento in cui osserviamo qualcuno che necessita aiuto, che compie azioni in altro modo, qualcuno con un corpo non conforme al nostro immaginario.
Nel nostro quartiere, nella nostra città, nel nostro paese e nel mondo intero, come nel parco giochi dove portiamo i nostri figli a giocare, esistono milioni di persone con disabilità che siamo abituati a non prendere in considerazione, su cui il nostro sguardo tenta di non soffermarsi, a cui ci hanno insegnato che non bisogna dar fastidio, che bisogna lasciar stare, a cui è meglio non fare domande.
Siamo abituati a non prendere in considerazione, mai, la persona seduta sulla carrozzina, quella con una malformazione o menomazione, con una divergenza cognitiva o una disabilità sensoriale, i bambini con disabilità; non vediamo Francesca che ha 24 anni e adora fare teatro, non pensiamo ci sia Giulio che vorrebbe correre con le macchine in gare pericolosissime, non ci viene nemmeno in mente che ci sia Leila che vorrebbe vivere da sola in una casa di ragazze piene di colori e musica alta o Gaia che vorrebbe solamente andare in gita con la sua classe. Vediamo solamente la loro disabilità, quello che ci perturba e non sappiamo affrontare.
Tutte le società che la storia umana ha attraversato e senza dubbio anche quella che viviamo in questo momento, annullano ogni peculiarità, ogni caratteristica, attitudine e desiderio delle persone con disabilità (a maggior ragione se questa è complessa da necessitare aiuto costante per le funzioni principali, o se è mentale e cognitiva) per vedere solamente l’etichetta della sua malattia, menomazione, condizione: un’etichetta così mastodontica da coprire interamente la persona, fare ombra su tutta la sua interezza.
E’ un qualcosa che va decostruito in ognuno di noi, prendendo consapevolezza che ogni persona, a prescindere dalle sue condizioni, è la complessità delle peculiarità che la caratterizzano di cui la disabilità non è che una piccola parte; che ogni corpo e ogni mente ha diritto di essere parte attiva della propria vita, delle strade che attraversa, dei diritti che deve fruire, degli spazi che deve poter vivere e trasformare come ognuno di noi anche se non è conforme al nostro concetto di normalità, produttività, riproduttività.
Per fare in modo che questo avvenga bisogna per prima cosa conoscere i bisogni speciali, mescolare quelli di ognuno di noi e scoprire così come sia più facile trovare degli strumenti di risposta nella collettività, in una società consapevole, capace di destreggiarsi tra necessità e ausili, conformità e divergenza, in una mescolanza che deve essere alla base di ogni esperienza, ogni luogo, ogni sentimento o settore della società.
Non c’è miglior modo di abbattere le porte che le tengono chiuse in casa con i loro figli sbilenchi, che uscire dall’immaginario della madre coraggiosa e prescelta, la sola capace di provvedere alle cure più adatte, alle terapie più all’avanguardia, alle battaglie più faticose: smettiamo di chiamarla con queste parole, di descrivere il suo bambino come “speciale” e quindi destinato ad un’eterna infantilizzazione, al non essere mai immaginato capace di autodeterminarsi, di fare le proprie scelte, di essere messo in condizione di poter costruire le proprie autonomie. Distruggere tutti insieme il paradigma con cui siamo abituati a narrare, osservare, parlare della disabilità vuol dire immaginare un tessuto culturale capace di cambiare ritmo e approccio, un design urbano che sappia modificarsi sui bisogni di ognuno, sui ritmi e le esigenze, sulla necessità che ogni persona sia parte.
Vuol dire cancellare per sempre l’idea che ci siano persone che necessitano solamente cura e assistenza, dei senza nome con dei familiari martirizzati al loro fianco nella segregazione e nel silenzio; vuol dire non associare una condizione fisica o mentale diversa al dolore e alla sofferenza ma comprendere che non esiste persona che non voglia costruire la propria felicità, il proprio percorso di vita, il proprio passaggio nella società che vive.
Che ogni corpo desidera, vibra, gioisce, condivide, vive intensamente la felicità e il bisogno di essere un animale sociale e che la disabilità non è che una peculiarità ineludibile dell’essere umano, che ha bisogno di liberarsi dal pietismo e dallo stigma. E di conquistare una vita che sia di diritto al futuro, allo studio, all’affettività, all’abitare, alla vita indipendente, all’assistenza personalizzata, all’autodeterminazione, alla socialità, allo sport, alla cultura, alla politica, alla vita tutta, che è un insieme di tutto questo e deve esserlo per tutti e tutte, ognuno a modo suo.