21 ago 2024
Un commento sulla recente sentenza del Consiglio di Stato (1798/2024) in merito all'inclusione scolastica
Una recente sentenza del Consiglio di Stato (1798/2024) ha respinto il ricorso presentato dai genitori di un ragazzo disabile a cui erano state attribuite un numero di ore di sostegno scolastico inferiori a quelle indicate dai docenti della sua scuola e dagli operatori che si occupano della sua assistenza e riabilitazione.
Ritorna l’esclusione
Il «Pei», piano educativo individualizzato, finalizzato a fornire un supporto personalizzato per l’apprendimento e lo sviluppo di ciascun studente sulla base delle proprie specifiche esigenze e capacità, prevedeva 13 ore invece delle 7 concesse dal comune dove il giovane risiede.
Secondo i giudici amministrativi le indicazioni contenute nel Pei non avrebbero valore vincolante ma solo orientativo, lasciando così l’ultima parola alla burocrazia amministrativa. Una affermazione pericolosa e in contrasto con tutta la giurisprudenza precedente e i pronunciamenti della Corte costituzionale e che di fatto sottomette il diritto allo studio per i minori disabili ai vincoli economici delle amministrazioni locali.
Una distinzione fuorviante
Con una interpretazione capziosa l’Alta corte amministrativa ha distinto l’assistenza didattica fornita direttamente dall’istituzione scolastica, attraverso l’insegnante di sostegno, dall’assistenza all’autonomia e alla comunicazione, fornita per legge dai comuni e dalle regioni e che è parte integrante del diritto allo studio.
Per intenderci: se vengono meno alcuni servizi essenziali come la possibilità di accompagnare l’alunno con lo scuolabus, oppure l’assistenza diretta alla persona (accompagnarlo in bagno, assisterlo alla mensa ecc), o peggio l’assistenza alla comunicazione fornita da docenti specializzati in Lis e Caa, fondamentali per l’apprendimento e la comunicazione con il resto della classe e i docenti, viene leso il diritto fondamentale alla inclusione scolastica e alla efficacia dell’insegnamento didattico specializzato fornito dagli stessi insegnanti di sostegno che il più delle volte non sono formati a questi linguaggi.
«L’accomodamento ragionevole» e il suo rovescio
I giudici non hanno minimamente indagato se le ragioni di bilancio addotte del piccolo comune della Emilia Romagna per ridurre le ore di assistenza fossero realmente fondate, ha preferito invece introdurre una interpretazione gravemente discriminatoria del diritto all’istruzione per i disabili con argomenti che hanno una significato generale-astratto dalle ripercussioni nefaste.
La sentenza, infatti, fonda la propria decisione sul ribaltamento del concetto di «accomodamento ragionevole», nozione formulata nella dottrina giuridica nordamericana, Civil Rights Act.
L’accomodamento o soluzione ragionevole venne formulato negli Stati Uniti quale riconoscimento giuridico dell’obbligo per i datori di lavoro di favorire le pratiche religiose dei dipendenti, a condizione che ciò non comportasse gravi disagi all’attività lavorativa. Si è poi diffuso all’ambito della disabilità con il Rehabilitation Act e l’American with Disabilities Act e in Canada con il Canadian Charter of rights and freedoms. Largamente impiegato per facilitare l’inclusione delle persone disabili nel mondo del lavoro, quindi in caso di persone adulte, l’accomodamento ragionevole è inteso come soluzione finalizzata a compensare le misure di inclusione lì dove la normativa è carente.
In sostanza si tratta di un principio di incentivazione all’inclusione, recepito nella Direttiva 2000/78/CE e poi confluito all’interno della Convenzione Onu sui Diritti delle Persone con Disabilità (2006), art. 3, comma 2, per affermare i principi di uguaglianza e di non discriminazione per i lavoratori con disabilità, che i giudici amministrativi, con una bella dose di faccia tosta, sono riusciti a capovolgere proponendone una lettura rovesciata che discrimina anziché includere, che torna ad alzare barriere anziché abbatterle.
Una decisone da respingere
Questa sentenza se non adeguatamente contrastata e annullata aprirà un baratro che indebolirà il diritto all’inclusione aprendo la strada agli argomenti esclusivisti e discriminatori del pensiero razzista oggi tornato di moda. il diritto fondamentale allo studio per le persone con disabilità, come per ogni altro essere umano, non può essere subordinato a esigenze finanziarie ma va tutelato in ogni modo.
La decisione del Consiglio di Stato riapre il tema politico delle risorse economiche destinate alle politiche d’inclusione che non possono essere demandate unicamente agli enti locali, col rischio di una sperequazione territoriale tra comuni e ragioni con maggiore e minore ricchezza. Solo delle politiche di welfare centrale sono in grado di garantire un redistribuzione equa sul territorio nazionale.